3 agosto 2020

MARSEILLE





Guardare Marseille,ma più in generale un film di Angela Schanelec, è come dover guardare contemporaneamente 2 film ; il primo è quello che vediamo sullo schermo, il secondo invece è composto da tutto quello che non ci viene mostrato, dal non detto, ed è proprio quello che dobbiamo ''guardare'' ma per farlo dobbiamo scavare dentro di noi perchè solo lasciandoci trascinare dal dolore del nostro subconscio possiamo immedesimarci realmente in una vita che non ci appartiene.

Marseille nasconde un baratro, un vuoto siderale che risucchia chiunque riesca a fare propria la confusione che si crea nella vita di Sophie, quella che tiene uniti i frammenti del suo vissuto. Possiamo vedere la (sua) vita come un mosaico di fotografie,di frammenti che non combaciano, pezzi di un puzzle incompleto, un continuo progetto che non vedremo mai terminato.

Guardare Marseille è vedere le conseguenze senza conoscerne le cause, è guardare le prove senza poter vedere lo spettacolo.

Veniamo immersi sin da subito nella robotica solitudine di Sophie, una fotografa berlinese che ha accettato uno scambio di appartamento con una ragazza francesce,Zelda,ufficialmente per scattare delle foto alla città di Marsiglia ma più probabilmente per staccare dalla routine,  per ritrovare se stessa e il suo posto nel mondo.
Sophie si definisce una fotografa ma di fatto non lo fa per lavoro,non sappiamo che lavoro faccia realmente così come non sappiamo nulla di lei e delle persone con cui fatica a interagire.
Siamo catapultati in una situazione in cui non abbiamo alcun appiglio per comprendere o immedesimarci,esattamente come quando si esplora una città a noi sconosciuta,siamo testimoni della sua disconnessione dal mondo esterno. Apatia e difficoltà comunicative ci accompagnano fino a quando conosce Pierre, giovane meccanico del quartiere col quale forse ( e il forse è d'obbligo dato che anche qui il clou della loro intesa ci viene negato) intraprende una fugace realazione amorosa prima di ritornare al grigiore della sua routine berlinese.
E' l'unico momento del film in cui assistiamo a qualcosa di molto simile alla felicità, sembra che l'incontro con Pierre abbia dato nuova linfa alla sua esistenza,potrebbe aver trovato il suo posto nel mondo.

Tornata a Berlino il film prende una piega inaspettata abbandonando completamente il personaggio di Sophie per concentrarsi su Hannah.
Hannah è un amica di Sophie che conduce un esistenza triste e frustrante divisa fra un impiego che la vede umiliarsi in piccole comparse teatrali e un figlio , Anton avuto con un uomo diverso dall'attuale compagno Ivan, un cinico fotografo anaffettivo che oltre a non amarla molto probabilmente ha una realzione con Sophie ,la quale nel tempo libero fa da babysitter ad Anton.

Intuiamo della possibile intesa fra Ivan e Sophie da un accesa discussione che quest'ultima ha con Hannah in una lunga sequenza a bordo piscina,al termine della quale Sophie rinfaccia ad Hannah di non esser realmente depressa ma di star semplicemente recitando una parte proprio come sul set,accusandola di essere incapace di smettere di fingere e consequenzialmente di prendere in mano la propria vita.
Vita che Sophie è convinta di essersi ripresa in mano e quindi decide di abbandonare nuovamente Berlino per tornare a Marsiglia, questa volta per un periodo più lungo, forse per  riprendere a vivere a pieno la sua storia con Pierre....
Ma una volta giunta a Marsiglia tutto quello a cui assistiamo è un lungo interrogatorio in una stazione di polizia nel quale veniamo a conoscenza che Sophie è stata aggredita da un uomo (un ladro probabilmente) che l'ha costretta ad uno scambio di vestiti per poter scappare indisturbato dalla polizia.
Non sappiamo chi sia il ladro ma ci sono degli indizi ( la corporatura/capigliatura di Pierre è molto simile a quelle di Sophie, ideale per confonderli da lontano, senza contare che il vestiario dell aggressore è proprio una tuta da meccanico identica a quella di Pierre) che lasciano supporre che si tratti proprio di Pierre.

Lo scambio di vestiti come scambio di persona, come furto di un identità che sembrava aver ritrovato.

Assistiamo alla progressiva disintegrazione emotiva concentrata tutta nel suo sguardo attonito e nel tempo interminabile che impiega per rispondere ad una semplice domanda del poliziotto (''vedo che sei una fotografa,che cosa fotografi ?? '') che in quel momento sembra chiedere realmente ''CHI SEI ? CHE SENSO HA LA TUA VITA ?.

''Strade'' sarà la sua risposta lapidaria,quella più semplice. Perchè la vera risposta è nascosta da un altra parte oltre le parole, oltre alle immagini e al linguaggio.

E' lì , nel rumore sordo del mare che spazza via tutto,anche la sua immagine ormai ridotta a puntino che evapora nel malinconico silenzio del crepuscolo.






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