13 luglio 2016

DISTANT




''...non potevo parlare, gli occhi mi si chiudevano...
 ....non ero ne vivo ne morto, non sapevo nulla.
Guardando nel cuore della luce, il silenzio. ''

L'esordio al lungometraggio di Zhengfan Yang è composto da 13 piani sequenza a camera fissa senza dialoghi che seppur non abbiano nessun collegamento narrativo fra loro hanno un comun denominatore : la distanza.
Se dalle premesse il film può ricordare l'ungherese Tejut bisogna specificare che le 2 pellicole sono paragonabili solo sul piano formale : se l'opera di Fliegauf era  ''..un film su quello che ho trovato, un film dell'immaginazione'' ,un qualcosa che quindi apriva uno sguardo verso scenari illimitati, verso le infinite possibilità della vita, il suo corrispettivo cinese è un film che mette in scena una sola desolante realtà : siamo soli.

Dire che nei 13 pianosequenza non succede niente ma al contempo succede tutto sarebbe una banalità trita e ritrita che vi risparmio, anche perchè effettivamente non succede davvero nulla se per qualcosa intendiamo una costruzione classica dell'azione ''incipit-svolgimento-fine''.
Qui non c'è niente di tutto questo, solo 13 quadri in movimento nei quali la cornice è la vera protagonista e le figure umane che si muovono all'interno di essi sono semplici puntini sfocati, spesso sullo sfondo e mai inquadrati con primi piani proprio al fine di rendere indefinibili i loro volti e le loro azioni creando così una vera e propria distanza non solo fisica ma soprattutto emotiva tra lo spettatore e quello viene messo in scena.

Guardare Distant equivale a stare 10 minuti alla finestra a fissare un punto della strada osservando la gente che passa, a stare fermi alla fermata dell'autobus incrociando fugacemente persone che probabilmente non incontreremo mai più, fissare l'ultimo sfarfallio di luce di una lampada al neon che sta per spegnersi.

E' la rappresentazione di uno spazio talmente vasto all'interno del quale non siamo niente, siamo solo macchie indefinite prossime a dissolversi nel buio e la noia che inevitabilmente scaturisce in certi momenti non è altro che la presa di coscienza di tutto questo ; Bela Tarr diceva che anche un uomo immobile in un angolo è una storia, così come è una storia un manipolo di persone che si incontra in una baracca in mezzo al nulla senza proferire manco una parola. Il fatto che lo spettatore trovi inevitabilmente noiosa una sequenza del genere è la dimostrazione della nostra indifferenza verso gli altri, verso una quotidianeità che siccome non ci riguarda pensiamo non ci appartenga.

Zhengfan Yang ci sfinisce coi suoi interminabili piano sequenza ma ciò che ci mostra sono semplicemente frammenti di vita di tutti i giorni e per quanto possano sembrarci infiniti durano solo pochi minuti...cosa sono 10 minuti paragonati ad una vita intera ? Troviamo noioso guardare 2 persone per 10 minuti alla fermata del bus ma quelle persone potremmo essere noi, a nostra volta guardate da qualcun altro che reputa noiosa la nostra vita e al quale non frega niente del perchè siamo li ad aspettare.
Puo' sembrare un concetto radicale ma non è diverso da ciò che emerge nella sequenza del vecchietto che sviene sul marciapiede in mezzo all'indifferenza generale, passano tante macchine, qualche persona ma nessuno si ferma a soccorrerlo,l'unica persona che si ferma è una ragazzina ma la sua sembra più una mera curiosità voyeuristica puntualmente interrotta dalla madre che le intima di farsi gli affari suoi portandola via...quella vita non le appartiene,non è affar suo, deve tirar dritta per la sua strada senza guardarsi indietro e noi come lei osserviamo impotenti la scena, sapendo benissimo che quel vecchietto morirà in solitudine su quel marciapiede....siamo solo spettatori, dei voyeur, guardiamo la scena per vedere se andrà a parare da qualche parte ma non ci importa della storia che c'è dietro a quell'anziano.

In Distant i pianosequenza assumono i connotati di una prigione visiva troppo immensa e sovrastante per poter evadere da essa : come il pesce che viene liberato dalla prigonia del secchiello solo per finire in una prigione d'acqua più grande ( la piscina) così le figure che si muovono all'interno del film pur se escono dal nostro campo visivo saranno sempre schiave di un universo di incomunicabilità immutabile, immagini destinate a svanire.

Distant è con ogni probabilità la massima espressione artistica dell'alienazione umana che mi sia capitato di vedere, si arriva a fine visione che ci si sente soli e abbandonati ,tutto trasuda incomprensione e solitudine,perfino la valigia abbandonata alla fermata del bus sembra poter raccontare una storia disperata.

Distant è una presa di coscienza , un silenzio che grida disperato che non riusciamo a percepire come gli ultimi spasmi di un malato terminale emessi quando le luci si sono spente e non c'è più nessuno ad accudirlo.
Il faro getta gli ultimi barlumi di luce su questo mare di solitudine.
Ci resta soltanto la consapevolezza che la distanza fra le parti è incolmabile.