7 dicembre 2020

ORLY

 



Se di solito una caratteristica peculiare del cinema di Angela Schanelec è la pochezza di dialoghi, necessaria a far emergere e sottolineare l'importanza del ''non detto'', possiamo considerare Orly come una mosca bianca della sua filmografia in quanto qui i dialoghi non solo abbondano ma rivelano proprio parte di quel ''non detto'' che di solito possiamo solo immaginare.

Siamo nell aeroporto parigino di Orly,area vastissima,asettica e spersonalizzante, un crocevia nel quale ogni giorno sostano migliaia di persone ognuna con la propria storia e il proprio vissuto. Uno spazio chiaramente metaforico, un non-luogo in cui l'occhio di Dio ( la mdp) scruta nell'esistenza di un manipolo di soggetti che interagiscono l'uno con l'altro ma più si parlano e più si rendono conto di essere estranei perfino a loro stessi.

C'è Juliette, una donna che mentre si sta recando in Canada per andar a trovar un marito che ha sposato troppo frettolosamente incontra e si innamora di Vincent, un uomo divorziato tormentato dai sensi di colpa,a sua volta in viaggio d'affari per rilevare l'azienda dell'amico morente Theo. 

Lo stesso Theo che ha scritto una lettera alla donna che lo ha appena lasciato ,Sabine, la quale giunta in aeroporto ,legge la lettera mentre viene seguita da un giovane attratto da lei che è disposto a lasciar da sola la propria fidanzata pur di poter osservare Sabine qualche secondo in più prima di vederla sparire per sempre.

Per finire assistiamo ad una madre che si sta recando al funerale del marito e mentre aspetta l'aereo confida al figlio di aver amato e avuto un rapporto sessuale con un altro uomo quando il padre di quest ultimo era ancora in vita e, in vena di confidenze scomode il figlio rivela alla madre di aver avuto un rapporto omosessuale con un altro ragazzino suo pari età.

La presenza massiccia di dialoghi però non snatura affatto il concetto che sta alla base del cinema della Schanelec : l'incomunicabilità è perenne, il dialogo un bisturi che scava per cercare la risposta all'interrogativo più difficile di tutti , ''Chi siamo ?''. Ma non c'è risposta, incontrare una persona equivale a incontrare se stessi perchè, proprio come Zeno ( non a caso la fidanzata del ragazzo sopracitato sta leggendo il famoso romanzo di Svevo) siamo individui malati e inetti alla continua ricerca di una guarigione tramite tentativi assurdi o controproducenti. 

Non è importante se il prossimo ci ama ma se ci permette di amare noi stessi, quindi la compresione risulta effimera come la permanenza in aeroporto e quando un fattore esterno spezza l'idillio di questo spazio-tempo resta solo il  vuoto dei corridoi, il silenzio assordante tra le tazzine di caffè ancora sparse sui tavoli deserti tra i quali rimbomba l'eco di possibilità che non conosceremo mai.Siamo buchi neri osservati a distanza da un Dio impotente che non accetta visite e non concede autografi.









20 ottobre 2020

THE SUNDAY OF GILDA M


 

Non è facile per me scrivere di The sunday of gilda M e questo non solo perchè il regista Frank Viso è un mio carissimo amico ma anche perchè la signora Gilda in questione altri non è che sua mamma, un anziana signora che ho avuto il piacere di conoscere qualche anno fa seppur per un breve periodo di tempo. 

Eppure malgrado il poco tempo trascorso insieme , giusto due chiacchere di circostanza, e quindi l'impossibilità oggettiva del poter dire '' la conosco'' ne conservo il ricordo di una donna estremamente gentile,affettuosa e ospitale, una di quelle persone che ''fanno colpo subito'' verrebbe da dire, una donna umile che trasmette un senso di tenerezza e affabilità al proprio interlocutore. 

E questo lavoro in un certo senso replica esattamente queste sensazioni, perchè anche se è innegabile che il cinema per quanto si possa avvicinare al reale non potrà mai sostituirne la veridicità , la tangibilità del contatto umano, riesce in pochi minuti a far cogliere allo spettatore quella che è l'essenza di Gilda in quanto persona, quella di un vissuto a malapena accennato ma comunque vivo, pulsante e percepibile.

Sta tutta qui la grandezza del corto,verrebbe da fare un paragone (sebbene solo ed esclusivamente di natura concettuale) col cinema di Angela Schanelec in quanto la potenza evocativa è tutta nella profonda intimità che non viene mostrata, nel non detto che si nasconde dietro ad ogni fotogramma, nel vissuto che è stato e del quale noi vediamo solo l'epilogo.

Il corto ,con le dovute proporzioni, richiama alla mente il capolavoro di Chantal Akerman Jeanne Dielman 23 quai du commerce 1080 bruxelles in quanto mostra quella che è una routine di una donna sola, ma se nel film della regista belga il tutto è finalizzato ad una riflessione sull alienazione e la monotonia che portano alla follia, arrivando per l'appunto ad utilizzare un titolo lungo e dettagliato come a voler trasformare la protagonista in una sequenza di informazioni meccaniche , a ridurla ad un numero di matricola, nel corto di Frank Viso è tutto l'opposto : il minimalismo della quotidianeità ci mostra quella che è si una routine, ma una routine positiva di una donna che malgrado gli acciacchi dell'età ha la forza e la determinazione di vivere , una donna che ha anche lei un cognome , un indirizzo ed una città in cui esistere ma che ci viene nascosto non per privacy ma per delicatezza , proprio perchè non si parla di matricole ma di persone , di vita vera e di emozioni profonde legate ad essa.

La routine quindi non è da percepirsi come noia, circolo vizioso di una condizione sociale senza uscita ma bensi come scelta di perseveranza e resistenza , di dignità e amore per quello che è stato il passato e che ora è il presente e a tal proposito è commovente la dedizione che Gilda mette in tutto quello che fa quotidianamente per amore di chi ancora le sta accanto , con un pensiero rivolto alle foto di chi non c'è più ma che ancora veglia su di lei dall'alto in quell ultima scena di commovente bellezza in cui il suono dell'interruttore che spegne la luce ci catapulta in un buio funereo che sa di capolinea, di compimento.... ma è una prospettiva che viene completamente ribaltata dalla sequenza successiva che, in un esplosione di colori e immagini che si sovrappongono ,svela l'insieme dei ricordi , dei luoghi e delle emozioni che hanno scritto le pagine della sua vita , indelebilmente ,nella memoria del tempo.



3 agosto 2020

MARSEILLE





Guardare Marseille,ma più in generale un film di Angela Schanelec, è come dover guardare contemporaneamente 2 film ; il primo è quello che vediamo sullo schermo, il secondo invece è composto da tutto quello che non ci viene mostrato, dal non detto, ed è proprio quello che dobbiamo ''guardare'' ma per farlo dobbiamo scavare dentro di noi perchè solo lasciandoci trascinare dal dolore del nostro subconscio possiamo immedesimarci realmente in una vita che non ci appartiene.

Marseille nasconde un baratro, un vuoto siderale che risucchia chiunque riesca a fare propria la confusione che si crea nella vita di Sophie, quella che tiene uniti i frammenti del suo vissuto. Possiamo vedere la (sua) vita come un mosaico di fotografie,di frammenti che non combaciano, pezzi di un puzzle incompleto, un continuo progetto che non vedremo mai terminato.

Guardare Marseille è vedere le conseguenze senza conoscerne le cause, è guardare le prove senza poter vedere lo spettacolo.

Veniamo immersi sin da subito nella robotica solitudine di Sophie, una fotografa berlinese che ha accettato uno scambio di appartamento con una ragazza francesce,Zelda,ufficialmente per scattare delle foto alla città di Marsiglia ma più probabilmente per staccare dalla routine,  per ritrovare se stessa e il suo posto nel mondo.
Sophie si definisce una fotografa ma di fatto non lo fa per lavoro,non sappiamo che lavoro faccia realmente così come non sappiamo nulla di lei e delle persone con cui fatica a interagire.
Siamo catapultati in una situazione in cui non abbiamo alcun appiglio per comprendere o immedesimarci,esattamente come quando si esplora una città a noi sconosciuta,siamo testimoni della sua disconnessione dal mondo esterno. Apatia e difficoltà comunicative ci accompagnano fino a quando conosce Pierre, giovane meccanico del quartiere col quale forse ( e il forse è d'obbligo dato che anche qui il clou della loro intesa ci viene negato) intraprende una fugace realazione amorosa prima di ritornare al grigiore della sua routine berlinese.
E' l'unico momento del film in cui assistiamo a qualcosa di molto simile alla felicità, sembra che l'incontro con Pierre abbia dato nuova linfa alla sua esistenza,potrebbe aver trovato il suo posto nel mondo.

Tornata a Berlino il film prende una piega inaspettata abbandonando completamente il personaggio di Sophie per concentrarsi su Hannah.
Hannah è un amica di Sophie che conduce un esistenza triste e frustrante divisa fra un impiego che la vede umiliarsi in piccole comparse teatrali e un figlio , Anton avuto con un uomo diverso dall'attuale compagno Ivan, un cinico fotografo anaffettivo che oltre a non amarla molto probabilmente ha una realzione con Sophie ,la quale nel tempo libero fa da babysitter ad Anton.

Intuiamo della possibile intesa fra Ivan e Sophie da un accesa discussione che quest'ultima ha con Hannah in una lunga sequenza a bordo piscina,al termine della quale Sophie rinfaccia ad Hannah di non esser realmente depressa ma di star semplicemente recitando una parte proprio come sul set,accusandola di essere incapace di smettere di fingere e consequenzialmente di prendere in mano la propria vita.
Vita che Sophie è convinta di essersi ripresa in mano e quindi decide di abbandonare nuovamente Berlino per tornare a Marsiglia, questa volta per un periodo più lungo, forse per  riprendere a vivere a pieno la sua storia con Pierre....
Ma una volta giunta a Marsiglia tutto quello a cui assistiamo è un lungo interrogatorio in una stazione di polizia nel quale veniamo a conoscenza che Sophie è stata aggredita da un uomo (un ladro probabilmente) che l'ha costretta ad uno scambio di vestiti per poter scappare indisturbato dalla polizia.
Non sappiamo chi sia il ladro ma ci sono degli indizi ( la corporatura/capigliatura di Pierre è molto simile a quelle di Sophie, ideale per confonderli da lontano, senza contare che il vestiario dell aggressore è proprio una tuta da meccanico identica a quella di Pierre) che lasciano supporre che si tratti proprio di Pierre.

Lo scambio di vestiti come scambio di persona, come furto di un identità che sembrava aver ritrovato.

Assistiamo alla progressiva disintegrazione emotiva concentrata tutta nel suo sguardo attonito e nel tempo interminabile che impiega per rispondere ad una semplice domanda del poliziotto (''vedo che sei una fotografa,che cosa fotografi ?? '') che in quel momento sembra chiedere realmente ''CHI SEI ? CHE SENSO HA LA TUA VITA ?.

''Strade'' sarà la sua risposta lapidaria,quella più semplice. Perchè la vera risposta è nascosta da un altra parte oltre le parole, oltre alle immagini e al linguaggio.

E' lì , nel rumore sordo del mare che spazza via tutto,anche la sua immagine ormai ridotta a puntino che evapora nel malinconico silenzio del crepuscolo.






15 luglio 2020

THE DREAMED PATH




L'impossibilità del raccontare il male di vivere è la chiave di lettura del cinema di Angela Schanelec:ogni scena è chirurgica,meccanica , ogni emozione è soffocata come ''You and me'' ,la canzone che si interrompe di colpo al suo apice, in uno dei rarissimi momenti di contatto umano.
E' un non-dialogo che si interrompe di continuo, come a voler cercare le parole giuste ma non trovandole deve ricominciare ogni volta da capo fino a rinunciare completamente.

Sono le conversazioni che non abbiamo, il non detto, a perseguitarci e riecheggiare in loop nei luoghi e nella memoria del tempo...che il tutto avvenga ora o fra trent'anni ( dico trenta perchè così recita la sinossi su IMDB ma da ciò che si vede e dall'età dei personaggi è più probabile che ci sia stato un errore di traduzione e che siano passati solo 13-15 anni tra la prima e la seconda parte del film) è ininfluente perchè c'è un filo invisibile che collega le solitudini di queste anime incapaci di combaciare.

In ''the dreamed path'' veniamo catapultati in una serie di situazioni che sono giù iniziate e che non abbiamo punti di riferimento per comprendere ( basti pensare che perfino i nomi dei due protagonisti iniziali Theres e Kenneth vengono pronunciati soltanto una volta ,per giunta in situazioni casuali e fugaci ) ,diventiamo spettatori di vite che non ci appartengono e pertanto ci è impossibile far nostro il loro dramma.

La mancanza di empatia coi protagonisti e la difficoltà cronica dello spettatore nel provare emozioni forti durante la visione dei suoi film è la critica che viene fatta più frequentemente dai detrattori del cinema della Shanelec eppure paradossalmente è proprio la sua asetticità radicale ed esasperata il suo punto di forza . La solitudine è una condizione talmente intima che non può essere spiegata ed è proprio in questa impossibilità narrativa, in questa inefficacia della parola che  lo spettatore si estranea da quello che osserva e che il concetto stesso di solitudine riesce ad esistere proprio perchè accentuato dal nostro distacco emotivo che crea un ulteriore isolamento, un'incomunicabilità.

Diventiamo noi stessi i protagonisti della recita che è la nostra vita, ma recitare non ci rende meno soli (''Penso che ci siano un sacco di attori solitari.e non credo si sentano meno soli dopo un giorno di riprese'' dice una ragazza a fine pellicola ) e tutta l'emotività che è soppressa durante la visione del film si insinua come un tarlo dentro di noi e ci mangia dentro nei giorni successivi.

''Il percorso sognato'' del titolo che suona così metafisico è in realtà una beffa terribilmente concreta, quel futuro ideale che tutti sognano in realtà è un collegamento universale di vicoli ciechi.

Ora che suo figlio è adulto, Theres probabilmente passerà il resto dei suoi giorni da sola.

Kenneth non farà nessuna scuola di musica, l'ultimo suono che sentirà sarà quello del treno che maciulla il suo corpo mentre il suo cane aspetterà invano il suo ritorno sotto la pioggia.

Forse la coppia in crisi tornerà assieme o forse lei continuerà a recitare per fingere di poter aver una conversazione altrimenti impossibile e lui si eclisserà nel buio di quella stanza in affitto, con quella tapparella che divora la luce nel suo meccanico sferragliare mentre la figlia continua ad allenarsi a calcio...forse diventerà una star, forse fallirà come i suoi genitori.

Non lo sapremo mai, non ci è dato saperlo. Tutto si interrompe di colpo così come era cominciato, nel mezzo di una situazione che ci resterà per sempre estranea.

Le parole sono superflue o comunque inefficaci, l'attesa della fine è l'unico linguaggio universale.








12 settembre 2018

NUESTRO TIEMPO




Non è assolutamente facile per me parlare di Nuestro Tiempo.
Reygadas non è semplicemente il mio regista preferito ma è quanto di più vicino nella mia vita ci sia stato ad una guida spirituale, una sorta di entità divina che con la sua arte ha cambiato la mia visione delle cose.
E Nuestro Tiempo spiazza non solo perchè risulta di un dolore e di un intimità laceranti ma proprio perchè mi ha mostrato il Reygadas uomo, semplice essere umano passionale, frustrato, amante della bella vita, guardone ,scambista , malinconico e fragile come tutti noi comuni esseri umani.

Non posso dire con certezza matematica che questo film sia autobiografico al 100%, ma tutto in quest'opera ( a partire dalla scelta di utilizzare il proprio nucleo familiare come cast seppur con nomi differenti da quelli reali) lascia intendere che Nuestro Tiempo sia stato concepito come una catarsi atta ad esorcizzare i fantasmi della vita di coppia del regista stesso e ,da un punto di vista ancor più ampio, a cercar di comprender la complessità e la fragilità dei rapporti umani.

Juan ed Ester sono una ''coppia aperta'' ma dopo che quest'ultima intraprende una relazione sessuale con un giovane ''gringo'' , Juan inizia a soffrire (e noi con lui) di un incontrollabile gelosia che lo porta ad interrogarsi sul reale significato del concetto di amore : un sentimento potente ma paradossale in quanto necessità di esclusività per potersi definire tale ma è proprio quell'esclusività che lo rende un ostacolo alla libertà individuale dei parters.

Juan (Reygadas) teme che sua moglie possa innamorarsi del gringo perdendo così la possibilità di essere amato in quel modo assoluto e totalizzante che desidera e questo non fa altro che distruggere la sua effimera illusione di poter controllare gli eventi , la sua (purtroppo) tipica convinzione maschile di esser in grado di gestir ogni situazione.

In un primo momento condividiamo la gelosia di Juan e gli diamo perfino ragione , ma tutto diventa confuso e complesso quando tramite una voce fuoricampo veniamo a conoscenza di una parte del passato di Juan in cui egli stesso si è trovato nella stessa situazione ma dall'altra parte della barricata, trovandosi nella difficile situazione di dover troncare la relazione con l'ex moglie ancora perdutamente innamorata di lui.

Questa nuova prospettiva ci getta nello sconforto anche perchè chiunque abbia mai amato davvero nella propria vita si ritroverà inevitabilmente a rivivere in quel limbo di incertezza, in bilico tra l'irreversibilità del baratro e la remota possibilità del miracolo.

Tutto diventa ansia, ogni sequenza il preludio ad un imminente tragedia.

Ed il tutto è meravigliosamente messo in scena da uno che è maestro nel modellare i tempi della narrazione fino a farle assumere una dimensione reale di intimità e che riesce a trasportare tutta questa carica emotiva in una prova attoriale di una sincerità commovente che culmina nella meravigliosa scena del pianto dinanzi all amico morente; stati d'animo differenti ma entrambi sulla stessa banchina in attesa dell'autobus che porta al capolinea.

Resta solo da capire come e quando, così come resta da capire quale dei due stia realmente morendo.

Il vuoto siderale che scava dentro Juan in quel momento è in netta contrapposizione con l'amore dei familiari presenti e premurosi al capezzale dell'amico morente.

L'amore, quella luce tra gli alberi che scandisce il nostro tempo.

La luce dell'alba che veglia su bestie numerate dentro ad un recinto,  lassù, distante dalle miserie umane.






24 marzo 2018

Mon Mon Mon Monster




Mai e poi mai mi sarei aspettato che un film con un titolo del genere potesse rivelarsi una vera e propria chicca capace di metter d'accordo sia i fan dello splatterone ignorante sia coloro che in un opera cercano una maggior caratterizzazione degli aspetti più introspettivi.
Mi aspettavo il solito horrorino orientale simil trash ,magari con finale aperto ad un sequel o peggio ancora il classico film in cui alla fine il bene trionfa e finisce a tarallucci e vino.

Mon mon mon monster invece è un sapiente mix di generi,parte quasi come una commedia demenziale per poi diventare sempre più grottesco fino a sfociare nell'horror più convenzionale, restando tuttavia sempre originale e imprevedibile nel suo incedere, ma andiamo con ordine.

Shun-wei è il classico 15enne sfigatissimo e secchione con tanto di orecchie a sventola e capelli a scodella. Talmente sfigato che non solo è vittima di continui scherzi da parte dello zoccolo duro dei bulli della sua classe ma è anche sbeffeggiato senza ritegno e spesso umiliato dalla sua stessa insegnante, un'invasata religiosa che anzichè prender le sue difese lo rimprovera di non esser in grado di stare al mondo.
L'unica persona che sembra provare empatia x il poveraccio è una ragazza obesa, se possibile ancor più emarginata di lui che puntualmente viene allontanata e irrisa da shun wei stesso.

Il fattore interessante che subito balza all'occhio è notare come in qualsiasi altro film lo spettatore proverebbe compassione x questo sfortunato (co)protagonista oggetto di vessazioni ,qui invece ci viene da disprezzarlo pure noi proprio perchè la sua incapacità di reagire ai soprusi si unisce alla sua vigliaccheria nel prendersela con chi è perfino più debole di lui mettendo subito in luce un circolo vizioso di violenze senza soluzione.
D'altro canto non possiamo nemmeno patteggiare per il manipolo di bulletti capitanati da quella carismatica carogna di Ren hao che inizialmente ci appare come il classico figlio di papà intoccabile a cui tutto è concesso.
Ci troviamo quindi spiazzati nell'assistere ad una situazione in cui non ci sono personaggi cosidetti ''buoni'' o perlomeno positivi nei quali identificarci e la situazione precipita quando a seguito di una punizione ricevuta dall'insegnante ,Shun wei e i bulli si trovano costretti a scontare una punizione in ore di servizi socialmente utili.
Le loro visite nelle quali dovrebbero assistere anziani bisognosi e indifesi si trasformano in feroci scorribande di furti e umiliazioni ai danni di questi ultimi , mettendo in risalto tutto il vuoto, la noia e la cattiveria delle nuove generazioni che agiscono impunite e senza motivo.
La genialità di Giddens Ko tuttavia sta nel mostrarci tutto questo senza mai cadere nella retorica e nel moralismo spicciolo stemperando con un ironia nerissima queste situazioni disturbanti al punto di lasciarci interdetti e confusi come davanti a qualsiasi meme di black humor , ridi si, ma un po' ti senti una brutta persona.

Quella che però sembra essere a tutti gli effetti una semplice commedia nera sul tema del bullismo prende una svolta inaspettata quando a seguito di un furto nell'appartamento di un anziano i nostri antieroi si imbattono in 2 creature mostruose a metà strada fra uno zombie e un vampiro e dopo esser sopravvissuti all'attacco riescono a imprigionare una delle due in uno scantinato che usano come luogo di ricreazione e la sottopongono a torture di vario genere.

Oltre alla svolta horror /sovrannaturale assistiamo ad un cambiamento importante nella personalità di Shun wei, il quale pur restando l'ultima ruota del carro nella gerarchia del gruppo comincia ad assumere un atteggiamento ambiguo nei confronti della creatura imprigionata aiutando sì i bulli a torturarla ma anche mostrando talvolta dei segnali di empatia ( userà ad esempio il suo sangue per nutrirla).

Sembra qualcosa si stia iniziando a smuovere nel suo animo anche se lo vediamo sempre più parte del suo nuovo gruppo di ''amici'' ,i quali nonostante continuino a sfruttarlo e irriderlo, dimostrano anche di saper prendere le sue difese quando persone estranee al loro nucleo provano a prendersi gioco di lui, specie Ren Hao che in veste di capobranco vuole rivendicare la sua esclusiva sulle prepotenze che si possono infierire a shun wei.

A seguito di una bravata del gruppo finita in tragedia ( e rigorosamente filmata con smartphone e messa in rete) però, la seconda creatura ( sorella maggiore di quella imprigionata) si mette sulle tracce degli aguzzini della sorellina e qui inzia il bagno di sangue.

La seconda creatura inizia un massacro indiscriminato di studenti nella disperata speranza di rintracciare gli autori del sequestro e punirli compiendo così una vera e propria strage di innocenti che culmina nella meravigliosa scena del pulman nella quale perde la vita la fidanzata di Ren hao ( un altra stronza che la metà basta).

Ci troviamo davanti ad un vero e proprio tripudio di nichilismo in cui empatia e redenzione diventano vocaboli sconosciuti e credo mai come in questo caso ci troviamo immersi in una situazione ambigua nella quale è impossibile prendere una posizione dal momento che è impossibile delineare chi sono i veri mostri.

Ogni evento è semplicemente una sfumatura di nero che ci mostra una società sempre più meschina e priva di valori.

Sangue chiama sangue.

Si arriva così alla resa dei conti nella quale Ren Hao escogita un piano per intrappolare il secondo mostro nello scantinato in cui è relegato il mostro più piccolo per ucciderli entrambi.
Ma tutta questa spirale di nichilismo ha segnato profondamente il giovane Shun wei il quale all'ultimo istante decide di sovvertire i piani di Ren Hao sabotando i compagni e consegnandoli di fatto al massacro da parte della sorella del mostro per vendicare tutte le angherie subite.

Ma la furia distruttrice della seconda creatura non si arresta e Shun wei è costretto a eliminarla personalmente bruciandola viva assieme alla sorellina in quella che con ogni probabilità è la scena più toccante dell'intera pellicola, ed è fortemente significativo il fatto che l'unico gesto d'amore sia perpetrato da 2 mostri.

Chiuso il cerchio Shun wei torna a scuola ma anche con mezza scuola decimata continua a subire sbeffeggi dagli alunni rimasti.

Malgrado tutto quello che ha vissuto e sopportato in totale solitudine per gli altri resta una nullità .

Nulla sembra cambiato, anzi il suo animo sembra diventato ancora più nero quando avvicinandosi al tavolino della ragazza obesa che mangia da sola le rovescia il bicchiere per terra dicendole : ''tu non sei come gli altri'', una frase orribile che sembra chiaro emblema della sua trasformazione in vero figlio di puttana proprio come i suoi defunti compari.

Ma è proprio qui, nel finale che il film si eleva a tripudio di emozioni e diventa realmente galvanizzante quando ci accorgiamo che Shun wei ha avvelenato l'acqua dell'istituto col sangue di una delle creature e che quella sua ultima azione apparentemente disumana è in realtà il solo modo che ha per riscattarsi preservando l'unico personaggio positivo della storia e pagando il suo debito con il mondo : con la vita.

Non resta altro che unirci al suo grido liberatorio e sperare nel perdono.


Polvere alla polvere, cenere alla cenere.






3 giugno 2017

SHULTES



''I remember nothing''

E' con questa frase di Lyosha che si apre il film.

La memoria è tutto quello che abbiamo per dimostrare chi siamo e solo vivendo nella memoria altrui possiamo realmente esistere.

Chi è Lyosha ?

Il folgorante esordio di Bakuradze è un asettico ricordo mutilato , un puzzle al quale sono stati rimossi dei pezzi e quindi anche riassemblando ciò che ne resta non è possibile vedere il disegno nella sua integrità , possiamo solo immaginare , intuire cosa c'era in quei tasselli mancanti.

Sono pochissimi i punti di riferimento che abbiamo approcciandoci a Shultes a partire dal suo protagonista , Lyosha, del quale non sappiamo praticamente nulla .

Sappiamo che non ricorda una parte del suo passato, o almeno così sembra dal momento che gira con un taccuino sul quale annota o sono annotati dettagli fondamentali come il suo indirizzo di casa o il suo numero di cellulare.
Sappiamo anche che si guadagna da vivere rubando automobili e documenti per conto di terzi facendosi aiutare da un ragazzino , il piccolo Kostik, assoldato dopo averlo visto borseggiare un'anziana sull'autobus.
E' proprio Kostik l'unica persona con la quale Lyosha sembra mostrare un flebile affetto, ma è un rapporto che si discosta molto da un fare paterno o quantomeno ad un atto che implichi una qualsivoglia redenzione.

Lyosha sembra un cyborg senza alcun tipo di emozione.

La sua vita è una grigia routine scandita da furti, visite mediche che tengono sotto controllo il suo stato di salute e momenti in cui prova a tener compagnia alla madre morente con la quale non ha un dialogo vero e proprio dato che gli uniche parole che le rivolge sono per chiederle se le servano altre medicine oppure per leggerle il palinsesto televisivo.

E' proprio l'assenza di veri e propri dialoghi uno dei punti cardine del film, Bakuradze ci immerge in una realtà realmente cupa e alienante nella quale i rapporti umani sono ridotti all'osso : la comunicazione verbale è marginale, assente , spesso quando ascoltiamo un dialogo lo sentiamo già iniziato oppure si interrompe di colpo come se fosse un rumore di fondo, un fastidio.

E' in questo contesto spersonalizzante che si muove il nostro protagonista, tra palazzine tutte uguali nelle quali cerca di trovare una persona che forse non è mai esistita, tra bar semi deserti nei quali si incontra col fratello al quale racconta di lavorare come personal trainer e al quale passa costantemente dei soldi tenendolo all'oscuro delle condizioni di salute disperate della madre.

Ma perchè Lyosha mente praticamente su ogni aspetto della sua vita?
E' la vergogna della sua condizione che lo porta a mentire?
Forse no.

La menzogna è il secondo aspetto cruciale del film, l'arma che utilizza il nostro protagonista per difendersi dai ricordi,da un qualcosa di oscuro che la sua amnesia ha temporaneamente cancellato.

Ma lo scudo dietro al quale si nasconde è destinato a cadere come un castello di carte : gli eventi inizieranno a farlo cedere.

Le condizioni di sua madre peggiorano portandola alla morte ed è proprio in questa circostanza,in una rapida sequenza ,che veniamo a conoscenza del significato del titolo : Shultes altro non è che il cognome di Lyosha. E'l'unica sequenza del film in cui verrà pronunciato questo nome. Forse oltre allo spettatore, è Lyosha stesso a prendere progressivamente consapevolezza della sua identità.

Durante un controllo di routine in ospedale, Lyosha riconosce da un tatuaggio il corpo di una ragazza morente nel reparto rianimazione : è una turista che ha borseggiato qualche giorno prima insieme a kostik.

Forse un tempo anche lui si è trovato sul medesimo letto, in quello stesso reparto, in quelle condizioni.

Per la prima volta assistiamo ad un comportamento umano da parte del nostro protagonista : decide di andare a recuperare i documenti della ragazza (che precedentemente aveva gettato in un cassonetto dopo averla borseggiata) forse ai fini di permettere ai medici di identificarla. Ma una volta trovati i documenti in questione decide di entrarle in casa ed è qui che tutto prende una piega inaspettata.

Tra gli effetti personali della ragazza Lyosha trova un video registrato su una videocamera che collega al televisore.

In quella che a mio avviso non solo è la miglior scena del film ma una delle sequenze più toccanti mai viste, assistiamo ad una video dedica d'amore registrata dalla ragazza per un presunto fidanzato nella quale lo ringrazia per aver dato un senso alla sua routine e successivamente si mette a cantare la struggente GORECKI dei Lamb in un crescendo di malinconia che finisce con una brusca interruzione del video, perfetta sintesi di un sentimento inespresso.
Forse quelle parole non verranno mai udite da nessun altro. Mentre lui è li ad osservare quel video probabilmente la ragazza è morta e quella registrazione andrà perduta per sempre trasformandosi in uno sterile frammento di memoria.

Qualcosa dentro di lui è stata smossa definitivamente.

Tornando a casa apre una vecchia scatola di foto dalle quali possiamo intuire che un tempo, prima dell'incidente, Lyosha era un corridore . C'è anche una foto che lo vede assieme ad una ragazza su una moto. Sul retro della foto appare la scritta ''compleanno Olya, 2005''. Forse era lei la variabile che rendeva sopportabile la sua routine.

Arriva una chiamata dal medico, occorre fare un controllo di richiamo per testare eventuali miglioramenti della sua memoria.
E' passato già un anno dal primo controllo, 2 anni dal suo ricovero.
Dopo una serie di domande introduttive alle quali Lyosha risponde dichiarando il falso arriva la fatidica domanda che tutti stavamo aspettando :

''Lyosha, ricordi perchè sei finito in ospedale 2 anni fa ?''

La risposta che fornisce al dottore è che mentre tornava a casa fu aggredito da 3 malviventi che lo colpirono alla testa , che riuscì ad accoltellarne uno ma alla fine ebbe la peggio ...ma la sua versione sembra completamente diversa da quella dichiarata dal referto clinico nel quale si parla di trauma a seguito di un grave incidente stradale. Perchè Lyosha ha fornito questa versione?
Alla domanda del dottore che gli chiede se fosse solo al momento dell'incidente, dopo un interminabile silenzio risponde di non ricordare nulla.

E' in questo momento che capiamo che quanto abbiamo visto fin ora non è altro che un flashback che ci riconduce all'incipit.

Forse Lyosha non ha mai realmente perso la memoria ma lo shock di aver perso la sua fidanzata e la sua passione in un colpo solo è stato tale da indurlo a crearsi una patologia che potesse rimuovere il dolore.

Il vaso di pandora è stato aperto, non c'è più nulla che possa rendere sostenibile la sua routine.

Forse un altro furto può distoglierlo dai suoi pensieri quindi organizza un colpo coi suoi complici recandosi in un bar e sottraendo le chiavi della macchina ad un balordo.

Ma qualcosa va storto, la vittima si accorge del furto e lo insegue con altri 2 amici.

A nulla servono le urla di Kostik che gli intima di scappare.

Lyosha rallenta il passo , estrae il coltello...ma viene raggiunto.

Si interrompe qui.

Troncamento, taglio netto, chiurgico.

Fine della routine
Dei rumori di fondo
Del fastidio.

Capolinea.