7 dicembre 2020

ORLY

 



Se di solito una caratteristica peculiare del cinema di Angela Schanelec è la pochezza di dialoghi, necessaria a far emergere e sottolineare l'importanza del ''non detto'', possiamo considerare Orly come una mosca bianca della sua filmografia in quanto qui i dialoghi non solo abbondano ma rivelano proprio parte di quel ''non detto'' che di solito possiamo solo immaginare.

Siamo nell aeroporto parigino di Orly,area vastissima,asettica e spersonalizzante, un crocevia nel quale ogni giorno sostano migliaia di persone ognuna con la propria storia e il proprio vissuto. Uno spazio chiaramente metaforico, un non-luogo in cui l'occhio di Dio ( la mdp) scruta nell'esistenza di un manipolo di soggetti che interagiscono l'uno con l'altro ma più si parlano e più si rendono conto di essere estranei perfino a loro stessi.

C'è Juliette, una donna che mentre si sta recando in Canada per andar a trovar un marito che ha sposato troppo frettolosamente incontra e si innamora di Vincent, un uomo divorziato tormentato dai sensi di colpa,a sua volta in viaggio d'affari per rilevare l'azienda dell'amico morente Theo. 

Lo stesso Theo che ha scritto una lettera alla donna che lo ha appena lasciato ,Sabine, la quale giunta in aeroporto ,legge la lettera mentre viene seguita da un giovane attratto da lei che è disposto a lasciar da sola la propria fidanzata pur di poter osservare Sabine qualche secondo in più prima di vederla sparire per sempre.

Per finire assistiamo ad una madre che si sta recando al funerale del marito e mentre aspetta l'aereo confida al figlio di aver amato e avuto un rapporto sessuale con un altro uomo quando il padre di quest ultimo era ancora in vita e, in vena di confidenze scomode il figlio rivela alla madre di aver avuto un rapporto omosessuale con un altro ragazzino suo pari età.

La presenza massiccia di dialoghi però non snatura affatto il concetto che sta alla base del cinema della Schanelec : l'incomunicabilità è perenne, il dialogo un bisturi che scava per cercare la risposta all'interrogativo più difficile di tutti , ''Chi siamo ?''. Ma non c'è risposta, incontrare una persona equivale a incontrare se stessi perchè, proprio come Zeno ( non a caso la fidanzata del ragazzo sopracitato sta leggendo il famoso romanzo di Svevo) siamo individui malati e inetti alla continua ricerca di una guarigione tramite tentativi assurdi o controproducenti. 

Non è importante se il prossimo ci ama ma se ci permette di amare noi stessi, quindi la compresione risulta effimera come la permanenza in aeroporto e quando un fattore esterno spezza l'idillio di questo spazio-tempo resta solo il  vuoto dei corridoi, il silenzio assordante tra le tazzine di caffè ancora sparse sui tavoli deserti tra i quali rimbomba l'eco di possibilità che non conosceremo mai.Siamo buchi neri osservati a distanza da un Dio impotente che non accetta visite e non concede autografi.









20 ottobre 2020

THE SUNDAY OF GILDA M


 

Non è facile per me scrivere di The sunday of gilda M e questo non solo perchè il regista Frank Viso è un mio carissimo amico ma anche perchè la signora Gilda in questione altri non è che sua mamma, un anziana signora che ho avuto il piacere di conoscere qualche anno fa seppur per un breve periodo di tempo. 

Eppure malgrado il poco tempo trascorso insieme , giusto due chiacchere di circostanza, e quindi l'impossibilità oggettiva del poter dire '' la conosco'' ne conservo il ricordo di una donna estremamente gentile,affettuosa e ospitale, una di quelle persone che ''fanno colpo subito'' verrebbe da dire, una donna umile che trasmette un senso di tenerezza e affabilità al proprio interlocutore. 

E questo lavoro in un certo senso replica esattamente queste sensazioni, perchè anche se è innegabile che il cinema per quanto si possa avvicinare al reale non potrà mai sostituirne la veridicità , la tangibilità del contatto umano, riesce in pochi minuti a far cogliere allo spettatore quella che è l'essenza di Gilda in quanto persona, quella di un vissuto a malapena accennato ma comunque vivo, pulsante e percepibile.

Sta tutta qui la grandezza del corto,verrebbe da fare un paragone (sebbene solo ed esclusivamente di natura concettuale) col cinema di Angela Schanelec in quanto la potenza evocativa è tutta nella profonda intimità che non viene mostrata, nel non detto che si nasconde dietro ad ogni fotogramma, nel vissuto che è stato e del quale noi vediamo solo l'epilogo.

Il corto ,con le dovute proporzioni, richiama alla mente il capolavoro di Chantal Akerman Jeanne Dielman 23 quai du commerce 1080 bruxelles in quanto mostra quella che è una routine di una donna sola, ma se nel film della regista belga il tutto è finalizzato ad una riflessione sull alienazione e la monotonia che portano alla follia, arrivando per l'appunto ad utilizzare un titolo lungo e dettagliato come a voler trasformare la protagonista in una sequenza di informazioni meccaniche , a ridurla ad un numero di matricola, nel corto di Frank Viso è tutto l'opposto : il minimalismo della quotidianeità ci mostra quella che è si una routine, ma una routine positiva di una donna che malgrado gli acciacchi dell'età ha la forza e la determinazione di vivere , una donna che ha anche lei un cognome , un indirizzo ed una città in cui esistere ma che ci viene nascosto non per privacy ma per delicatezza , proprio perchè non si parla di matricole ma di persone , di vita vera e di emozioni profonde legate ad essa.

La routine quindi non è da percepirsi come noia, circolo vizioso di una condizione sociale senza uscita ma bensi come scelta di perseveranza e resistenza , di dignità e amore per quello che è stato il passato e che ora è il presente e a tal proposito è commovente la dedizione che Gilda mette in tutto quello che fa quotidianamente per amore di chi ancora le sta accanto , con un pensiero rivolto alle foto di chi non c'è più ma che ancora veglia su di lei dall'alto in quell ultima scena di commovente bellezza in cui il suono dell'interruttore che spegne la luce ci catapulta in un buio funereo che sa di capolinea, di compimento.... ma è una prospettiva che viene completamente ribaltata dalla sequenza successiva che, in un esplosione di colori e immagini che si sovrappongono ,svela l'insieme dei ricordi , dei luoghi e delle emozioni che hanno scritto le pagine della sua vita , indelebilmente ,nella memoria del tempo.



3 agosto 2020

MARSEILLE





Guardare Marseille,ma più in generale un film di Angela Schanelec, è come dover guardare contemporaneamente 2 film ; il primo è quello che vediamo sullo schermo, il secondo invece è composto da tutto quello che non ci viene mostrato, dal non detto, ed è proprio quello che dobbiamo ''guardare'' ma per farlo dobbiamo scavare dentro di noi perchè solo lasciandoci trascinare dal dolore del nostro subconscio possiamo immedesimarci realmente in una vita che non ci appartiene.

Marseille nasconde un baratro, un vuoto siderale che risucchia chiunque riesca a fare propria la confusione che si crea nella vita di Sophie, quella che tiene uniti i frammenti del suo vissuto. Possiamo vedere la (sua) vita come un mosaico di fotografie,di frammenti che non combaciano, pezzi di un puzzle incompleto, un continuo progetto che non vedremo mai terminato.

Guardare Marseille è vedere le conseguenze senza conoscerne le cause, è guardare le prove senza poter vedere lo spettacolo.

Veniamo immersi sin da subito nella robotica solitudine di Sophie, una fotografa berlinese che ha accettato uno scambio di appartamento con una ragazza francesce,Zelda,ufficialmente per scattare delle foto alla città di Marsiglia ma più probabilmente per staccare dalla routine,  per ritrovare se stessa e il suo posto nel mondo.
Sophie si definisce una fotografa ma di fatto non lo fa per lavoro,non sappiamo che lavoro faccia realmente così come non sappiamo nulla di lei e delle persone con cui fatica a interagire.
Siamo catapultati in una situazione in cui non abbiamo alcun appiglio per comprendere o immedesimarci,esattamente come quando si esplora una città a noi sconosciuta,siamo testimoni della sua disconnessione dal mondo esterno. Apatia e difficoltà comunicative ci accompagnano fino a quando conosce Pierre, giovane meccanico del quartiere col quale forse ( e il forse è d'obbligo dato che anche qui il clou della loro intesa ci viene negato) intraprende una fugace realazione amorosa prima di ritornare al grigiore della sua routine berlinese.
E' l'unico momento del film in cui assistiamo a qualcosa di molto simile alla felicità, sembra che l'incontro con Pierre abbia dato nuova linfa alla sua esistenza,potrebbe aver trovato il suo posto nel mondo.

Tornata a Berlino il film prende una piega inaspettata abbandonando completamente il personaggio di Sophie per concentrarsi su Hannah.
Hannah è un amica di Sophie che conduce un esistenza triste e frustrante divisa fra un impiego che la vede umiliarsi in piccole comparse teatrali e un figlio , Anton avuto con un uomo diverso dall'attuale compagno Ivan, un cinico fotografo anaffettivo che oltre a non amarla molto probabilmente ha una realzione con Sophie ,la quale nel tempo libero fa da babysitter ad Anton.

Intuiamo della possibile intesa fra Ivan e Sophie da un accesa discussione che quest'ultima ha con Hannah in una lunga sequenza a bordo piscina,al termine della quale Sophie rinfaccia ad Hannah di non esser realmente depressa ma di star semplicemente recitando una parte proprio come sul set,accusandola di essere incapace di smettere di fingere e consequenzialmente di prendere in mano la propria vita.
Vita che Sophie è convinta di essersi ripresa in mano e quindi decide di abbandonare nuovamente Berlino per tornare a Marsiglia, questa volta per un periodo più lungo, forse per  riprendere a vivere a pieno la sua storia con Pierre....
Ma una volta giunta a Marsiglia tutto quello a cui assistiamo è un lungo interrogatorio in una stazione di polizia nel quale veniamo a conoscenza che Sophie è stata aggredita da un uomo (un ladro probabilmente) che l'ha costretta ad uno scambio di vestiti per poter scappare indisturbato dalla polizia.
Non sappiamo chi sia il ladro ma ci sono degli indizi ( la corporatura/capigliatura di Pierre è molto simile a quelle di Sophie, ideale per confonderli da lontano, senza contare che il vestiario dell aggressore è proprio una tuta da meccanico identica a quella di Pierre) che lasciano supporre che si tratti proprio di Pierre.

Lo scambio di vestiti come scambio di persona, come furto di un identità che sembrava aver ritrovato.

Assistiamo alla progressiva disintegrazione emotiva concentrata tutta nel suo sguardo attonito e nel tempo interminabile che impiega per rispondere ad una semplice domanda del poliziotto (''vedo che sei una fotografa,che cosa fotografi ?? '') che in quel momento sembra chiedere realmente ''CHI SEI ? CHE SENSO HA LA TUA VITA ?.

''Strade'' sarà la sua risposta lapidaria,quella più semplice. Perchè la vera risposta è nascosta da un altra parte oltre le parole, oltre alle immagini e al linguaggio.

E' lì , nel rumore sordo del mare che spazza via tutto,anche la sua immagine ormai ridotta a puntino che evapora nel malinconico silenzio del crepuscolo.






15 luglio 2020

THE DREAMED PATH




L'impossibilità del raccontare il male di vivere è la chiave di lettura del cinema di Angela Schanelec:ogni scena è chirurgica,meccanica , ogni emozione è soffocata come ''You and me'' ,la canzone che si interrompe di colpo al suo apice, in uno dei rarissimi momenti di contatto umano.
E' un non-dialogo che si interrompe di continuo, come a voler cercare le parole giuste ma non trovandole deve ricominciare ogni volta da capo fino a rinunciare completamente.

Sono le conversazioni che non abbiamo, il non detto, a perseguitarci e riecheggiare in loop nei luoghi e nella memoria del tempo...che il tutto avvenga ora o fra trent'anni ( dico trenta perchè così recita la sinossi su IMDB ma da ciò che si vede e dall'età dei personaggi è più probabile che ci sia stato un errore di traduzione e che siano passati solo 13-15 anni tra la prima e la seconda parte del film) è ininfluente perchè c'è un filo invisibile che collega le solitudini di queste anime incapaci di combaciare.

In ''the dreamed path'' veniamo catapultati in una serie di situazioni che sono giù iniziate e che non abbiamo punti di riferimento per comprendere ( basti pensare che perfino i nomi dei due protagonisti iniziali Theres e Kenneth vengono pronunciati soltanto una volta ,per giunta in situazioni casuali e fugaci ) ,diventiamo spettatori di vite che non ci appartengono e pertanto ci è impossibile far nostro il loro dramma.

La mancanza di empatia coi protagonisti e la difficoltà cronica dello spettatore nel provare emozioni forti durante la visione dei suoi film è la critica che viene fatta più frequentemente dai detrattori del cinema della Shanelec eppure paradossalmente è proprio la sua asetticità radicale ed esasperata il suo punto di forza . La solitudine è una condizione talmente intima che non può essere spiegata ed è proprio in questa impossibilità narrativa, in questa inefficacia della parola che  lo spettatore si estranea da quello che osserva e che il concetto stesso di solitudine riesce ad esistere proprio perchè accentuato dal nostro distacco emotivo che crea un ulteriore isolamento, un'incomunicabilità.

Diventiamo noi stessi i protagonisti della recita che è la nostra vita, ma recitare non ci rende meno soli (''Penso che ci siano un sacco di attori solitari.e non credo si sentano meno soli dopo un giorno di riprese'' dice una ragazza a fine pellicola ) e tutta l'emotività che è soppressa durante la visione del film si insinua come un tarlo dentro di noi e ci mangia dentro nei giorni successivi.

''Il percorso sognato'' del titolo che suona così metafisico è in realtà una beffa terribilmente concreta, quel futuro ideale che tutti sognano in realtà è un collegamento universale di vicoli ciechi.

Ora che suo figlio è adulto, Theres probabilmente passerà il resto dei suoi giorni da sola.

Kenneth non farà nessuna scuola di musica, l'ultimo suono che sentirà sarà quello del treno che maciulla il suo corpo mentre il suo cane aspetterà invano il suo ritorno sotto la pioggia.

Forse la coppia in crisi tornerà assieme o forse lei continuerà a recitare per fingere di poter aver una conversazione altrimenti impossibile e lui si eclisserà nel buio di quella stanza in affitto, con quella tapparella che divora la luce nel suo meccanico sferragliare mentre la figlia continua ad allenarsi a calcio...forse diventerà una star, forse fallirà come i suoi genitori.

Non lo sapremo mai, non ci è dato saperlo. Tutto si interrompe di colpo così come era cominciato, nel mezzo di una situazione che ci resterà per sempre estranea.

Le parole sono superflue o comunque inefficaci, l'attesa della fine è l'unico linguaggio universale.